Leggende Maya e Azteche. Gli ingannatori
Gli ingannatori
Da che l’uomo esiste sorse il concetto del bene e del male. Nel suo rozzo cervello si radicò il convincimento dell’ombra e della luce, forgiando l’idea che il regno del bene era nel cielo e che il regno del male era nelle profondità della terra. Sono trascorsi secoli e questo concetto della luce e delle tenebre ancora esiste, e si trova in tutte le religioni: il cielo e l’inferno.
Nel Popol Vuh, il libro sacro dei Mayas Quiché, si parla del cielo e dell’inferno. Quest’ultimo era conosciuto come Xibalbá, luogo sotterraneo e profondo, abitato da gufi, uomini perversi, nemici dell’umanità. Di quel tempo e di quegli uomini è questa leggenda.
Davanti agli abitanti di Xibalbá un giorno si presentarono due poveri dal volto invecchiato e dall’aspetto miserabile, vestiti di cenci. Così furono visti da quelli di Xibalbá. E poco era ciò che facevano. Si occupavano soltanto di ballare la danza del Puhuy (civetta), quella della Cux (donnola) e quella dell’Iboy (armadillo). Inoltre facevano prodigi. Bruciavano le case come se ardessero davvero e al momento opportuno le riportavano al loro stato originale. Molti di quelli dello Xibalbá li contemplavano spaventati. Poi si sbranavano tra loro, si uccidevano l’uno con l’altro; si distendeva come morto il primo e all’istante lo resuscitava l’altro.
Queste notizie giunsero alle orecchie di Hun-Camé e di Vucub-Camé, i signori della dimora infernale, che inviarono i loro messaggeri perché invitassero quei due con lusinghe.
“Non vedete che non siamo altro che poveri ballerini? – dissero loro, discolpandosi per non recarsi alla presenza dei signori. – Cosa diremo ai nostri compagni di povertà che sono venuti con noi e desiderano vedere i nostri balli e divertirsi con questi? Per caso potremmo fare lo stesso con i signori? Così non vogliamo andare, messaggeri” dissero Hunahpú e Ixbalanqué.
Giunsero alla fine (visto che i messaggeri ricorsero a picchiarli perché andassero) davanti ai signori, con aria avvilita e a testa bassa; giunsero facendo riverenze, prosternandosi, umiliandosi. Li si vedeva estenuati, cenciosi, e, quando arrivarono, il loro aspetto era compassionevole.
“Da dove venite?” gli domandarono.
“Non lo sappiamo, signore. Non conosciamo il viso di nostra madre, né quello di nostro padre: eravamo piccoli quando morirono” risposero.
“Non vi affliggete, non abbiate paura. Ballate! Fate prima la parte in cui vi uccidete; bruciate la nostra casa, fate tutto ciò che sapete. E vi daremo ricompensa, povera gente” fu detto loro.
Allora incominciarono i loro canti e balli. Disse loro il signore: “Sbranate il mio cane e poi che sia resuscitato da voi”.
E così fecero e, anche se stavano tutti insieme i si- gnori dentro la casa, non si bruciarono.
“Uccidete ora un uomo, sacrificatelo, e poi che torni alla vita.”
Così fecero e l’uomo non morì, poiché essi gli diedero nuova vita.
“Sacrificatevi adesso voi stessi, che possiamo vederlo noi!”
“Molto bene” risposero. E subito dopo si sacrificarono. Hunahpú fu sacrificato da Ixbalanqué. Una per una furono accorciate le braccia e le gambe, separata la sua testa e portata a distanza; il suo cuore estirpato
dal petto e lanciato sull’erba. Quelli di Xibalbá erano affascinati.
E Hunahpú tornò alla vita all’invocazione di Ixbalanqué.
“Fate lo stesso con noi! Sacrificateci!” dissero i signori.
Ed ecco che per prima cosa sacrificarono colui che era capo e signore, Hun-Camé, re di Xibalbá. E, morto Hun-Camé, presero Vucub-Camé e lo uccisero. E non li resuscitarono ...
E un signore si umiliò allora, presentandosi davanti ai ballerini. “Abbiate pietà di me!” disse quando si fece conoscere.
Fuggirono tutti i figli e i vassalli di Xibalbá verso un gran burrone, e si misero tutti in un profondo precipizio.
Lì stavano ammucchiati quando giunsero innumerevoli formiche che li scoprirono e scacciarono dal burrone. Li costrinsero ad andare fino alla strada e quando arrivarono davanti agli eroi si prostrarono e si arresero tutti, si umiliarono, afflitti.