Il tacchino termostatico. Un etologo e i suoi animali. A proposito di imprinting

A proposito di imprinting

Il termine imprinting è intraducibile: sta per stampaggio, «impressione»; starebbe a significare tutti quei casi nei quali un’impressione esterna altera il corso degli eventi biologici di un animale in via di sviluppo, cioè in crescita. I casi più noti sono quelli che riguardano il cosiddetto imprinting materno, quando per esempio un pulcino si «imprinta» alla schiusa sulla figura della madre e la segue pedissequamente, ventiquattr’ore su ventiquattro: essa diviene la propria immagine di riferimento, di attaccamento. Una sorta di sicuro approdo cognitivo, di linea di base per costruirci sopra un mondo fatto di altri esseri viventi, con gradi di similitudine variati rispetto a tale immagine materna.

Fintanto che è un pulcino, fino a quando cioè i suoi ormoni sessuali non ne avranno canalizzato lo sviluppo al punto di stornare l’attenzione dalla madre per un oggetto di desiderio sessuale, oggetto che però si configurerà come un qualcosa di molto simile alla propria madre. In altre parole il processo dell’imprinting darebbe luogo – in un periodo precoce e partico- larmente sensibile dello sviluppo ontogenetico – alla formazione di uno schema di riferimento (la madre, oppure il padre, o un essere identico come un pulcino coetaneo); e tale schema di riferimento resterebbe una chiave di lettura fondamentale del mondo. Una sorta di fotografia «polaroid», rapidissima a svilupparsi, e utilizzata di continuo per ispezionare e catalogare il mondo.

Sull’imprinting, sui suoi processi soprattutto – ma anche sui meccanismi neurologici e ormonali che lo regolano – sono stati condotti studi innumerevoli. L’imprinting è un cavallo di battaglia classico dell’etologia post-lorenziana, uno dei fenomeni biologici più accuratamente dettagliati. Proprio per questo, l’imprinting, può essere esaminato per le sue successive accezioni, soprattutto per le forme con le quali ha accompagnato (epistemologicamente) la biologia del comportamento.

Nella sua accezione primordiale, l’imprinting era considerato soprattutto un processo rigido, determinato in tutti i suoi aspetti. L’imprinting doveva assolutamente verificarsi in un periodo determinato, anzi ben delimitato, dello sviluppo: giorni, se non ore, dalla schiusa o dal parto. In secondo luogo, gli effetti di tale esposizione precoce erano visti come assoluti, irrevocabili: una volta imprintato a una determinata figura materna, il pulcino avrebbe considerato madre esclusivamente tale figura, e si sarebbe sentito membro della specie cui tale figura corrispondesse. E nel caso l’esposizione precoce fosse avvenuta su un oggetto sbagliato, o del tutto innaturale (una specie animale diversa, o addirittura lo sperimentatore stesso), l’animale sarebbe stato tratto pesantemente in inganno con poche o nulle possi- bilità di redimersi.

Da qui è nata una narrativa biologica – o meta biologica – di animali imprintati su modelli erronei: il gatto che crede di essere un cane, l’uccellino che ritiene di essere un uomo e corteggia la vecchia zia con uno stile da dandy ornitico, tentando di infilarle in bocca (le vecchie zie non hanno becco) un lombrico appena estratto dall’orto. Storie più o meno fantastiche, a volte episodi tratti da vite vissute di etologi dilettanti o professionisti.

Ma c’era molta verità, in fondo, e molta poca fantasia, dato che per davvero gli animali allevati in cattività si comportano in modi strani. Ed è certamente vero che l’assenza di stimoli appropriati, ovvero la deprivazione di quell’insieme di stimoli naturali nei confronti dei quali l’organismo è predisposto, causa un genuino terremoto nello sviluppo neuropsichico di un vertebrato superiore.

Oggi la biologia in generale, e le scienze del comportamento in particolare, sono molto meno deterministiche di trenta o quaranta anni orsono, quando il termine imprinting veniva coniato e utilmente usato per descrivere le fenomenologie etologiche. Certamente resta valida l’idea che esistano periodi particolari, in quel concerto di melodie biologiche che è lo sviluppo ontogenetico, nel quale l’esposizione a un determinato modulo sociale causa un effetto molto pronunciato. Resta valida cioè l’idea di un periodo « critico » nel corso dello sviluppo, durante il quale l’organismo è predisposto a immettere un determinato tipo di informazioni nel proprio cervello, e nella propria «memoria».

Ma il periodo critico è un’idea stocastica, probabilistica: si può verificare a un dato stadio, ma anche a uno stadio precedente, come a uno stadio successivo. Né l’organismo «apre gli occhi» solo per poche ore dopo la schiusa, e poi non è più in grado di immettere informazioni: anche nell’età adulta, un uccello, oppure un topo, sono in grado di modificare sostanzialmente gli schemi interpretativi che si vorrebbero rigidamente prefissati in un periodo molto precoce della storia cognitiva del soggetto. Per esempio, una situazione di stress improvviso può risensibilizzare sistemi biologici apparentemente assestati. E l’imprinting, allora, funziona anche per gli adulti.

La storia dell’anatra muta che corteggia l’etologo tedesco, scambiandolo per un’anatra, o quella dei pulcini che seguono una madre-anatra di legno, può essere rinarrata in una versione moderna, come un film riproposto trent’anni dopo, e con effetti «speciali» prima impensabili. In assenza di stimoli appropriati (la femmina della propria specie, oppure la madre naturale) l’organismo «scardina» i propri modelli naturali per inserire tra i modelli psicologicamente appetibili anche quelli del tutto innaturali. Anziché ridirigere verso il modello completamente errato le tendenze naturali della specie, l’imprinting forzato su modelli innaturali spalancherebbe le porte a modelli bizzarri, consueti solo perché i modelli di biologica consuetudine non sono disponibili.

Sarebbe come dire che in mancanza di quella madre che la selezione naturale dovrebbe garantire al pulcino (cioè, un’anatra in pelle e piume), quest’ultimo sarebbe costretto ad accettare come madre qualsiasi oggetto mobile di una certa dimensione e colore. Ma anche un animale esposto a un modello innaturale, cioè imprintato su qualcosa di biologicamente strano, resta in grado di dimostrarci che l’imprinting non è poi rigidissimo. Assai di frequente, esso è in grado di recuperare, cioè di indirizzarsi su un modello appropriato, qualora questo gli venga presentato in modelli opportuni; per esempio non di fretta, ma per un periodo sufficientemente lungo, al fine di sconfiggere la naturale ritrosia per qualcosa di nuovo. Infatti, posto di fronte a una serie di modelli, alcuni più naturali, altri meno – oppure qualora gli sia dato scegliere tra una madre in legno e una viva – l’organismo si dimostra in grado di sapere operare una scelta, preferendo modelli più naturali a modelli meno naturali. Insomma, l’imprinting può cambiare il corso di una vita animale, ma fino a un certo punto. È tutta questione di sottili preferenze, non si tratta di un fenomeno brusco, del tipo sì/no, o ti voglio/non ti voglio.

Poi esiste il problema dell’autoispezione. Anche se non in grado di utilizzare uno specchio, un animale osserva il proprio corpo, e ne trae conseguenze per i propri rapporti con altri organismi. Se l’animale diviene familiare con la propria coda o con le proprie zampe, tale proprietà di familiarità risulterà transitiva nei confronti di animali con attributi fisici simili. Giochi di code, di penne, di zampe ricoperte da squame e non da calzoni. Allora si capisce perché mai il pollo si considera un uomo con tanta difficoltà, e perché sia difficile riprodurre l’esperimento nel quale il porcellino d’India tenta di accoppiarsi con la mano dello sperimentatore, mano-madre putativa a cinque dita che nutrí da piccolo un orfano sperimentale.

E non c’è da stupirsi di un risultato del 1987, prodotto presso la Duke University, stando al quale giovani anatre mandarine venivano imprintate a un modello di anatra albina oppure a un modello di anatra arlecchino. Si stabiliva una certa preferenza per il modello cui le anatre venivano imprintate, ma tale preferenza cambiava bruscamente qualora, durante il test, fosse stato presentato uno stimolo orrifico (per un pulcino d’anatra): un barbagianni impagliato, simulacro terribile di predatore.

Oggi i vari modelli vengono classificati secondo gradi diversi di «imprintabilità», secondo visioni per le quali l’organismo non è da considerare una tabula rasa, passivo contenitore di stimoli ambientali, bensì un essere in grado di crearsi attivamente rapporti con il mondo vivente e inanimato che lo circonda. E si tiene conto soprattutto del contesto nel quale l’imprinting ha luogo, dato che fenomeni di contorno a un’esposizione precoce del tipo dell’imprinting ne possono grandemente variare gli effetti.


Il tacchino termostatico. Un etologo e i suoi animali

di Enrico Alleva